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La morte si fuma i miei sigari di Charles Bukowski

Immagine del redattore: Fabio PugiottoFabio Pugiotto

La critica si è divisa, su di lui. In America c’è chi lo accusa di essere inutilmente aggressivo, violento; chi lo difende invece capisce che vivere e scrivere, per Bukowski, era un po’ lo stesso gesto: il suo mondo era ossessivamente sempre quello, un mondo di prostitute, individui spiantati, scrittori  solitari e alienati. Un’alienazione tutta reale, esistenziale ma anti-psicologica: infatti il meglio di sé Bukowski lo dà proprio quando  cattura le immagini di vita che fluiscono indipendentemente da tutto, indipendentemente da i rapporti, indipendentemente  dalla società, che nei suoi racconti sembra quasi uno sfondo asettico e incomprensibile entro cui si ritaglia il quadro romanzesco di personaggi pseudo-autobiografici. Un mondo fatto di stralci di esistenza sradicati, senza capo né coda, di rapporti  frenetici, sesso, un mondo attraversato dal tema dell’attaccamento morboso per l’alcol e, verrebbe voglia di dire, post-nichilista: i personaggi di Bukowski sono già fuori da ogni punto di riferimento, sono già privi di ogni articolazione intellettuale sensibile. Nei suoi scritti non c’è analisi, non c’è metafora, c’è solo la frenetica assurda voglia di affidare all’immaginazione l’espressione della vita e senza il minimo bisogno di darvi un’ordine. https://www.youtube.com/watch?v=lsZ1AjLL-dE




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